Qualche giorno fa ho letto su LinkedIn un post di Rudy Bandiera che scriveva: “Oggi ho finito il percorso di rebranding iniziato a luglio, fatto di telefonate, survey, interviste e sedute […] diverse centinaia di individui, che hanno direttamente partecipato a questa attività […] Senza di voi, che avete fatto quei click e dato quelle risposte e commenti sui social, in privato e ovunque, non sarebbe uscito quello che sono per oltre 200 mila persone sui vari social e piattaforme […] Sono confuso perché certe cose le “sentivo” ma non le sapevo, altre le immaginavo e alcune mi hanno sorpreso”.
In pratica Rudy raccontava di come si fosse lasciato “guidare” dalla propria community per migliorare il suo brand ed i servizi che offre. Badate bene, non stiamo parlando di un approccio customer oriented, siamo ben oltre!
Ho scritto a Rudy e gli ho chiesto se gli andasse di fare quattro chiacchiere. Questo è quanto ci siamo detti.
Alessandro: Allora Rudy, innanzitutto grazie, ti andrebbe di raccontarci cosa hai fatto e se ritieni sia un modus operandi che ogni azienda potrebbe seguire?
Rudy: Quello che ho fatto in realtà è molto semplice. Ho ascoltato 3 categore ben distinte di soggetti:
Da questa analisi è uscito fuori il percepito ed il posizionamento di Rudy Bandiera, l’archetipo, la promessa, il reason why, cosa la gente vuole e si aspetta da me. Ma anche in cosa sono bravo ma il pubblico non ritiene importante come servizio.
Quindi, se uno ad esempio è bravissimo a fare i podcast, ma il pubblico non apprezza i podcast, è inutile continuare a farne se prima non si mette in piedi tutta una serie di iniziative volte a far aumentare il percepito di questo strumento.
Attenzione, non è che ascoltando la propria fan base dobbiamo cambiare noi stessi a livello di personal branding, di prodotto o servizio! Bisogna cercare di restare il più aderenti possibili a cosa siamo, senza snaturarci, ma migliorando dove ce lo richiedono.
E’ l’errore di molti politici, che ascoltano ciò che la gente vuole e snaturano la propria identità per adeguarsi al percepito, scivolando nel populismo. Se invece non ci snaturiamo, ascoltiamo e capiamo cosa i nostri clienti apprezzano di più, possiamo lavorare per implementare e migliorare quel tipo di prodotto/servizio.
Io, ad esempio, ho scoperto che quasi la metà delle persone che mi segue apprezza i miei video brevi. Una cosa che non avrei mai detto! Stamattina, prima della nostra intervista ne ho già fatti cinque! E’ quello che vuole chi mi segue, mi viene bene, mi piace farlo, perfetto ne faccio di più.
Alessandro: Ascoltare, interagire e lasciarsi guidare dai clienti. Tra le grandi multinazionali lo ha fatto Allianz in tempo di lockdown. I clienti si lamentavano in Rete di dover pagare l’assicurazione auto senza poterla usare. L’azienda ha ascoltato e messo subito a punto un prodotto ad hoc “Allianz Stop & Drive” (blocchi l’assicurazione se non usi l’auto).
Stesso modus operandi utilizzato da Airbnb. I clienti scrivevano più volentieri (nei commenti e suoi social) delle loro esperienze, piuttosto che delle location affittate. Sembravano entusiasti delle “attività indimenticabili proposte da persone del luogo”. Risultato? Creano una sezione del sito dedicata alla prenotazione di esperienze memorabili: “Airbnb Experiences”.
Rudy: Esattamente! Non snaturare, ma migliorare quello che spesso hai già in casa, senza saperlo!
Alessandro: Intercettare i bisogni, creare ed animare una community, è un lavoro che sai fare molto bene…
Rudy: E’ quello che provo a fare bene, mettiamola così!
Creare una community non è cosa semplice, bisogna innanzitutto capire quali sono le dinamiche dei social. Capire perché, ad esempio, il 74% degli italiani la mattina la prima cosa che fa è staccare il cavetto della ricarica del telefono, andare in bagno ed aprire un social network. Perché succede questo?
Approfondendo la questione emerge chiaramente che il web non è un mercato. Io non vado sui social per cercare offerte, guardare pubblicità, vado per “cazzeggiare”. Ognuno con la propria declinazione. Vado online per passare del tempo, informarmi, trovare il fidanzato, condividere ecc. Quindi quello che dobbiamo fare non è vendere, ma creare relazioni, che poi forse portano ad una vendita.
E’ quindi fondamentale creare delle community che siano sì adese al nostro core business, ma soprattutto al nostro costrutto morale, ai nostri valori. Questo concetto è la cosa più difficile da far comprendere ad un’azienda.
Tutti pensano che il web sia gratis, che i social siano gratis. Io vado lì, mostro il mio prodotto, la gente lo compra. No, non è così. Perché la gente non è lì per quello!
Alessandro: Quindi come rispondi alla domanda dell’imprenditore che ti chiede “Si, ok Rudy, ma quanto fatturato mi porta questa attività di community”?
Rudy: E quando fai la pubblicità per radio, quanto ci ricavi? E quando fai il maxiposter 6×3, quanto ci ricavi? Non lo sai, non ne hai la più pallida idea. Lo fai per farti conoscere, per fare branding, awareness, ecc.
Ecco, immagina questa attività di community come quelle attività, ma molto più diretta, molto più potente! Mai come una fase di vendita. Non stai creando un ecommerce!
Alessandro: “Condivide et impera” è il titolo di un tuo libro, una frase che hai deciso di tatuarti sul braccio, quanto è importante “condividere” nel creare una community?
Rudy: Faccio sempre questo esempio. Tempo fa mi sono imbattuto in un barbone a Madrid, notando che molta gente si fermava e lasciava qualche soldo, ma non solo, lo faceva sorridendo. Incuriosito mi sono avvicinato. Non aveva il classico piattino per raccogliere le elemosine, né cartelli con testi strappalacrime, aveva davanti tre “bussolotti”. Su ognuno una scritta: “con quello che mi lasci qua comprerò birra”; “con quello che mi lasci qua comprerò vino”; “con quello che mi lasci qua comprerò whisky”. Ho sorriso e mi sono detto: “Mah! Sai che io adesso una bella birra me la fare volentieri!”, e gli ho lasciato qualcosa.
Non l’ho fatto per la sua richiesta, poiché, ovviamente, se avessi pensato che comprasse effettivamente solo birra, vino e whisky allora mi sarei dovuto sentire in colpa perché con la mia donazione avrei contribuito ad ucciderlo. L’ho fatto per me! Perché lui mi ha dato qualcosa, prima ancora che io gli cedessi dei soldi. Mi ha fatto sorridere. Mi ha fatto stare bene ed evadere, per un momento, pensando ad un momento di socialità e spensieratezza, un momento che io amo vivere. Mi ha dato un’emozione!
Ecco i social sono questa roba qua. Non posso pensare che la gente sia lì per darmi qualcosa. Perché? Che motivo avrebbero le persone se prima non ricevono qualcosa in cambio. Visto che io non ho cose materiali da “dare”, quello che condivido è il mio know how, la mia professionalità, le mie esperienze, che possono avere un valore oppure no, ma è quello che ho e scelgo di mettere a disposizione di altri.
Alessandro: Grazie Rudy.
Riassumendo: il consumatore informato conosce, crea e condivide nuova informazione ed è pronto a partecipare ad un processo che porti a migliorare i prodotti/servizi che utilizza (o che utilizzerà). Un like su Facebook, un commento, la recensione di un prodotto su Amazon o di un ristorante su Tripadvisor, sono solo esempi di interazioni continue tra brand e clienti.
Per migliorare questo processo le aziende debbono intercettare bisogni, interessi, passioni, sogni e desideri di clienti attuali e potenziali. Creare ed animare una community. Ascoltare e coinvolgeri i membri della stessa nelle scelte, farsi «guidare», nella gestione della propria attività, per incrementare il valore dei prodotti e del brand: dare, prima ancora di ricevere, condividere, interagire, partecipare.
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